«Alice ma tu ogni tanto impari dalle tue esperienze passate o cosa?» «Cosa»

Tra i detti più comuni che impariamo sin da bambini c’è sicuramente “sbagliando si impara”. Ma quante volte ci è toccato sbagliare prima di imparare davvero a non ricadere nello stesso errore? E da dove è scaturita la svolta che ci ha fatto uscire dall’empasse? I meccanismi dell’apprendimento non sono certo cosa semplice e lineare, ma proviamo a fare qualche considerazione insieme.

Che l’esperienza sia fondamentale per imparare è cosa ormai nota e teorizzata oltre un secolo fa dal filosofo e pedagogo John Dewey (Democrazia ed educazione, 1916). La sua espressione learning by doing è entrata a far parte del vocabolario di insegnanti e formatori e sintetizza un approccio attivo verso l’apprendimento. Secondo la concezione pragmatistica della conoscenza, conoscere significa interagire con la realtà. Di conseguenza, apprendere non significa ricevere passivamente delle nozioni, ma elaborare attivamente delle ideee. Ed è qui che interviene l’educazione a svolgere un ruolo fondamentale: amplificare le nuove esperienze e aprire la mente a nuove opportunità.

Nonostante l’educazione, “fare” senza mai “sbagliare” è quanto meno utopistico.

L’errore è inevitabile, su questo non c’è dubbio. Avere una conoscenza teorica da manuale non ci metterà al sicuro dal commettere qualche sbaglio quando proveremo a mettere in pratica quanto appreso. Altrettanto certo è che l’esperienza potrà rendere più sicuri i nostri passi, ma il rischio di inciampare ci sarà sempre. Siamo quindi condannati a sbagliare senza poter fare niente per evitarlo? Più o meno sì, prima o poi. Può sembrare che su questa affermazione incomba un leopardiano pessimismo cosmico, ma allora perché cerchiamo a tutti i costi di far nostro il mantra “sbagliando si impara”? Forse perché se non lo ripetessimo con convinzione finendo per crederci andremmo sospirando frasi come «È funesto a chi nasce il dì natale» e «A me la vita è male» invece di provare a rimediare -senza nulla togliere al grande poeta.

Abbi fede, rimedieremo all’errore. O impareremo ad accettarlo.

 L’errore sarà sempre fonte di frustrazione (e persino disperazione), ma per cercare di uscire da questi stati d’animo e portare a termine un progetto le sole competenze tecniche non sono sufficienti. Dovremmo provare a puntare sulle cosiddette soft skills, specialmente sull’empatia, sulla flessibilità e sulla creatività. Vediamo qualche incentivo che potrebbe essere d’aiuto:

  1. Concentrarci su come coinvolgere ed essere coinvolti emotivamente. Specie dopo aver sbagliato, i dubbi aumentano e rischiano di paralizzarci. Dovremmo quindi capire come mantenere alta la motivazione e l’autostima nonostante i fallimenti.
  2. Accettare il rischio. Lavorare in progetti con componenti di immaterialità e/o complessità ci porterà a brancolare nel buio. A quel punto dovremo imparare ad essere a nostro agio con l’incertezza e prendere decisioni rischiose.
  3. Meglio sbagliare tante piccole volte piuttosto che sbagliare una sola volta, ma in grande. Oltretutto, le metodologie di trial and error insegnano che procedere a piccoli passi è spesso più utile anche per sperimentare strade diverse e innovare più in profondità. Dovremmo quindi sperimentare pian piano nuove soluzioni senza prendere troppo negativamente gli inevitabili esiti negativi.
  4. Il successo, seppur parziale è sempre una vittoria. Far fronte a tanti piccoli fallimenti per arrivare a una soluzione decente ma non eccellente può essere demotivante, ma dovremo anche tenere a mente che tutto è migliorabile. Certo, è poi altrettanto vero che “il meglio è il nemico del bene”, ma l’uno non esclude l’altro.
  5. Quello che è sbagliato oggi, magari sarà giusto domani. In un mondo in cui idee e competenze diventano obsolete velocemente, la componenete temporale non è da prendere alla leggera. Oltretutto, se il cambiamento è sempre dietro l’angolo, dovremo imparare cose nuove ogni giorno, accettando che questo aumenta esponenzialmente il rischio di errore.

Il confronto con gli altri

Un’altra caratteristica essenziale per imparare dai propri errori è la capacità di ascoltare, abbinata all’umiltà e alla curiosità. La sola esperienza personale non è sufficiente a farci capire gli sbagli, specie se ci riteniamo troppo bravi per sbagliare o se crediamo di non aver nulla da imparare. Ed è qui che entrano in campo la formazione e il confronto. La prima interviene per sanare lacune, dare nuovi stimoli e facilitare l’apprendimento, mentre il secondo aiuta a cambiare punto di vista. Quando un’altra persona passa al setaccio il nostro errore riesce molto spesso a vedere falle che noi non vediamo, sulla base della sua logica e della sua esperienza. Non è importante che detta persona sia più esperta di noi, è ben più utile se riesce a instillarci il dubbio, se fa nascere una riflessione, se ci dà nuovi input.

Facciamo quindi nostro il “curioser and curioser” di Alice e quando sbagliamo cerchiamo di mettere da parte la sconfitta per confrontarci con le esperienze degli altri.

 

Angelo Pasquarella e Laura Garozzo – Projectland